Sarà capitato anche a te di dire “Ecco l’Alzheimer che avanza!” quando non riesci a trovare con facilità l’auto in un grande parcheggio. Questa frase ironica tiene conto del fatto che il nostro cervello sia costituito da un numero definito di cellule che gradualmente vanno incontro alla morte senza possibilità di rigenerazione. Non tutto però è patologia, demenza, Alzheimer. Ci sono situazioni di decadimento cognitivo fisiologicamente legate all’invecchiamento. In questo articolo proveremo a fare un po’ di chiarezza fra alterazioni “normali” e patologiche.
Cos’è il decadimento cognitivo
Il decadimento cognitivo consiste nella perdita o riduzione delle funzioni mentali – memoria, linguaggio, attenzione, problem solving – che può compromettere la vita quotidiana. Può essere provocato da diverse condizioni, tra cui malattie neurodegenerative come l'Alzheimer, eventi traumatici come ictus o lesioni cerebrali, o “semplicemente” dall’invecchiamento fisiologico.
La letteratura scientifica distingue tre livelli di decadimento::
- L’invecchiamento cognitivo fisiologico;
- Il Mild cognitive Impairment, una condizione di declino cognitivo intermedia tra l’invecchiamento fisiologico e i disturbi neurocognitivi;
- I Disturbi Neurocognitivi: la categoria diagnostica che, nel DSM 5 (APA, 2013), sostituisce il termine “Demenza”. Nello specifico si differenziano tra Delirium (alterazione di attenzione e consapevolezza a carattere temporaneo), Disturbo Neurocognitivo lieve, Disturbo Neurocognitivo Maggiore.
In un articolo scientifico del 2013, Harada et al., descrivono nel dettaglio le trasformazioni di ciascuna facoltà intellettiva nell’invecchiamento cognitivo fisiologico. Alcune abilità, come quelle legate al vocabolario, possono addirittura migliorare con l’età, mentre altre – ragionamento concettuale, memoria e velocità di processamento – tendono a peggiorare. Il vocabolario, che fa parte dell’intelligenza cristallizzata e si arricchisce con l’esperienza, è più stabile nel tempo. Al contrario, l’intelligenza fluida – legata alla rapidità di elaborazione, all’attenzione, alla memoria e al problem solving – affronta concetti nuovi e si deteriora più facilmente con l’età. Alcune abilità, come quelle legate al vocabolario, possano addirittura migliorare con l’età, mentre altre - ragionamento concettuale, memoria e velocità di processamento - tendono a peggiorare con l’invecchiamento. Il vocabolario, che appartiene all’intelligenza cristallizzata e si arricchisce con l’esperienza, tende a non subire cambiamenti. Invece, l’intelligenza fluida - legata alla memoria, al problem solving, alla rapidità di elaborazione a all’attenzione - affronta concetti meno familiari, dipendenti da ciò che si è appreso, ma anche dalle abilità innate di risolvere problemi, apprendere ed elaborare nuove informazioni, manipolare l’ambiente. Questo secondo tipo di intelligenza va incontro a deterioramento.
Il mild cognitive impairment (MCI, deterioramento cognitivo lieve) è una condizione intermedia tra il declino cognitivo legato all’invecchiamento fisiologico e la demenza. In uno studio del 1999, Petersen et al. hanno confrontato tre gruppi: un gruppo di controllo, uno con MCI e uno con Demenza di Alzheimer. I risultati mostrano che le persone con MCI ottengono punteggi simili al gruppo di controllo in molti ambiti cognitivi, tranne che nella memoria, dove le prestazioni si avvicinano a quelle del gruppo con Alzheimer. Tuokko et al. (2003) mettono in evidenza come nel follow up a 5 anni condotto sulle persone con mild cognitive impairment, il rischio di sviluppare demenza, soprattutto nella forma della malattia di Alzheimer (Chertkow et al., 2008), aumenti di circa il 50%. In ragione di questi dati tale condizione è sempre più spesso studiata e numerosi trattamenti farmacologici e non, vengono messi in campo per contrastare l’evoluzione potenzialmente patologica.
Nei disturbi neurocognitivi, termine che nel DSM 5 (APA, 2013) ha sostituito la demenza, il deterioramento cognitivo impatta in modo più o meno grave (da qui la distinzione tra disturbo neurocognitivo maggiore e minore) sull’indipendenza nelle attività quotidiane.
La differenza tra deterioramento cognitivo e demenza
Anche il DSM 5 (APA, 2013) fa riferimento alla diversa patogenesi dei disturbi neurocognitivi (deterioramento fisiologico dovuto all’invecchiamento, trauma, lesione, tumore). Il termine demenza, ancora impiegato in ambiente medico, coincide con i “disturbi neurocognitivi” in quelle situazioni in cui la causa del disturbo è degenerativa.
Per diagnosticare un disturbo neurocognitivo, il DSM-5 richiede:
- Declino cognitivo significativo rispetto a un precedente livello prestazionale in uno o più dei seguenti domini cognitivi: attenzione complessa, funzione esecutiva, apprendimento e memoria, linguaggio, funzione percettivo-motoria, cognizione sociale intesa come riconoscimento delle emozioni e alla teoria della mente, ovvero la capacità di attribuire intenzioni, ragionamenti e pensieri alla mente altrui in relazione ai comportamenti. Devono essere presenti preoccupazioni della persona, di un informatore attendibile o di un clinico, circa il declino delle funzioni cognitive, oppure la compromissione significativa della performance meglio se misurata attraverso test neuropsicologici o valutazioni cliniche.
- I deficit cognitivi devono interferire con l’indipendenza nelle attività quotidiane (necessità di assistenza nelle operazioni complesse della vita quotidiana come operazioni bancarie, pagamento di bollette, gestione farmaci, fino ad arrivare a difficoltà nella pianificazione ed esecuzione di azioni come quelle legate al vestirsi o al cucinare).
- I deficit cognitivi non si verificano solo in un contesto di delirium;
- I deficit cognitivi non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale (depressione maggiore, schizofrenia).
La differenza tra declino cognitivo e Alzheimer
Abbiamo provato a spiegare la demenza, quindi il disturbo neurocognitivo, come una particolare condizione clinica in cui il declino cognitivo è causato su base degenerativa. All’interno del calderone delle demenze spicca poi la malattia di Alzheimer (dal nome dello psichiatra che per primo l’ha descritta nel 1906).
Galimberti (2018) la inserisce tra le demenze pre-senili con età di insorgenza tra i 50 e 60 anni. Si manifesta con lesioni multiple, probabilmente legate all’accumulo di placche amiloidi, che interessano la corteccia cerebrale, varie regioni sottocorticali, l’ippocampo (una struttura molto importante per quanto concerne le funzioni mnemoniche). Borgna (2015) descrive come la temporalità sia fortemente impattata dalla malattia. Si parte dal futuro con la perdita di preoccupazioni e speranze. Con l’avanzare della malattia anche presente e passato iniziano ad essere intaccati. Galimberti (2018) parla di 3 stadi:
- comparsa dei primi deficit cognitivi soprattutto connessi alla memoria, in particolare recente, ma conservazione dell’affettività e della capacità di iniziativa;
- sviluppo delle sindromi peculiari di questo tipo di demenza: Afasia (disturbo nella produzione e comprensione del linguaggio), Agnosia (disturbo che non permette di avere consapevolezza circa il proprio stato), Agrafia (disturbo che intacca le capacità di scrivere e riprodurre simboli grafici), Alessia (incapacità di comprendere ciò che si legge o di riconoscere il simbolo scritto), Logoclonia (disordine del linguaggio con la ripetizione di sillabe finali di parole), wandering (comparsa di movimenti e comportamenti afinalistici che possono portare la persona a fughe e vagabondaggi pericolosi per l’incolumità);
- Impoverimento cognitivo completo con perdita totale delle funzioni simboliche.
Dopo 4-6 anni in media, per la persona sopraggiunge la morte. La conferma definitiva della diagnosi può avvenire solo post-mortem con l’osservazione autoptica delle lesioni. La malattia di Alzheimer riguarderebbe tra il 50 e il 70% delle demenze, seguita da un 10-20% invece su base vascolare.
Decadimento cognitivo e depressione
Secondo Gala et al. (2008, p.27) “i pazienti affetti da depressione con AD mostrano maggiore autocommiserazione, sensibilità al rifiuto e anedonia, ma meno segni neurovegetativi rispetto ai pazienti anziani depressi non dementi”. In tale articolo, viene messo in evidenza come la depressione possa essere presente in comorbidità con il Disturbo Neurocognitivo. Dai dati emerge che la depressione maggiore è presente nel 15% delle persone con malattia di Alzheimer e fino al 25% dei casi di demenza vascolare.
Il trattamento della depressione può portare a una remissione del declino cognitivo, ma nel 40% dei casi, entro tre anni, si sviluppa comunque una demenza irreversibile. Sempre secondo Gala et al. (2008), le manifestazioni variano in base all’età di insorgenza della depressione e al tipo di demenza (vascolare o frontale).Con l’ausilio di test specifici, sebbene forse solo la Scala Cornell per la Depressione in Demenza sia adeguata e permanga comunque la difficoltà di somministrare test in determinate condizioni di declino cognitivo, e la ricostruzione attenta dell’anamnesi si può provare a districare questa difficile matassa di sintomi e manifestazioni cliniche comuni.
Decadimento cognitivo: i sintomi
Come evidenziato nei paragrafi precedenti, i sintomi del declino cognitivo sono molto variegati e dipendenti dalle condizioni in cui esso si manifesta (invecchiamento fisiologico, disturbo neurocognitivo con fenomeni diversi a seconda del tipo di demenza o delirium). Non è semplice individuare una carta d’identità del declino cognitivo. Le manifestazioni sintomatologiche possono essere infatti diverse a seconda che si tratti di malattia di Alzheimer, Parkinson, demenza vascolare, infezione da HIV, malattia da prioni. Anche disturbi dell’umore o il disturbo d’ansia generalizzato possono influire su memoria, concentrazione e ’attenzione. In generale possiamo effettuare la seguente distinzione:
- Declino cognitivo lieve: problemi di memoria, attenzione, concentrazione, rallentamento nel pensiero nel confronto con il livello atteso per età e livello di istruzione, ma senza un impatto sulla quotidianità della persona;
- Mild cognitive Impairment (MCI): in questo caso oltre al calo nelle performances cognitive si riscontra anche un iniziale impatto sulle attività quotidiane;
- Declino cognitivo legato a Disturbo Neurocognitivo: vi è un calo significativo nelle prestazioni in diversi domini cognitivi (attenzione, funzione esecutiva, apprendimento, memoria, linguaggio, prassie, abilità motorie, cognizione sociale) con impatto sull’indipendenza nelle attività quotidiane.
Nel secondo caso, ogni sindrome ha poi un’evoluzione particolare a livello di sintomi e di impatto sulle facoltà cognitive.
Le cause del decadimento cognitivo
Al pari dei sintomi, genesi e cause del declino cognitivo sono particolarmente complesse. Anche in questo caso possiamo distinguere tra invecchiamento fisiologico e processi degenerativi. Nel primo caso i neuroni invecchiano e muoiono, ma spesso il fatto che la vita in età anziana richieda meno impegno da diversi punti di vista (riduzione di attività lavorativa, riduzione di attività sociali e relazionali) non rende evidente l’impatto di questo cambiamento. I processi degenerativi possono invece avere cause vascolari, traumatiche, tumorali, o genetiche che favoriscono la produzione di placche amiloidi come nel caso della malattia di Alzheimer. Il decadimento cognitivo può essere favorito anche da altre cause legate a specifiche condizioni di patologia, o di ambiente. Non è raro osservare, ad esempio, un peggioramento del declino cognitivo in anziani che vengono istituzionalizzati (minori stimoli sociali e motori). Monzani (2014) mette in evidenza invece come lo stress lavoro correlato sia un importante fattore di rischio del declino cognitivo. Anche patologie psichiatriche come la schizofrenia (Harvey et al., 1999) o infettive (HIV e se verranno confermati i primi studi anche il COVID) rappresentano possibili cause di decadimento cognitivo. Infine Lin et al. (2013) hanno messo in evidenza un legame tra la perdita di udito e il declino cognitivo. In generale possiamo affermare che tutto ciò che concorre a limitare la sensorialità può impattare sul declino delle capacità cognitive residue. L’ipoacusia favorisce il ritiro e l’isolamento sociale e relazionale, con pesanti ricadute sulle abilità intellettive.
Pucci et al. (2020) mettono in evidenza i seguenti fattori di rischio:
- età;
- bassa scolarità;
- fattori di rischio cardiovascolari;
- infiammazione cronica;
- condizione neuropsichiatriche croniche;
- condizioni genetiche.
Decadimento cognitivo e impatto sulla salute mentale
Secondo un comunicato Istat del 2017, in Italia la speranza di vita dopo i 65 anni è alta, ma le condizioni di salute degli anziani oltre i 75 anni sono peggiori rispetto alla media europea, con molte malattie croniche e limitazioni motorie. Oltre un milione di persone è affetto da demenza di Alzheimer, una realtà complessa che coinvolge famiglie, operatori e servizi, con un forte impatto sulla salute pubblica e mentale.Il declino cognitivo infatti può causare:
- Ansia e depressione;
- Progressivo isolamento sociale con conseguente solitudine;
- Aumento nel rischio di cadute e di comportamenti motori disorganizzati e afinalistici (fughe, wandering);
- Perdita dell’autonomia legata alla progressiva compromissione delle facoltà intellettive, organizzative, prassiche, motorie (ad esempio le persone non sono più in grado di fare la spesa, cucinare o provvedere alle proprie esigenze igieniche);
- Istituzionalizzazione in strutture.
Per una persona abituata a lavorare, a frequentare contesti sociali, l’impatto del declino cognitivo sulle principali facoltà intellettive, prassico-motorie, rappresenta uno tsunami che si abbatte sulla quotidianità.
L’assistente sociale e psicoanalista americana Naomi Feil (2002; 2003; de Klerk-Rubin, 2015). parla di questo momento della vita definendolo "risoluzione". L’anziano con progressivo declino cognitivo affronta 4 fasi:
- Malorientamento: la persona inizia a prendere consapevolezza dei cambiamenti fisici e cognitivi imposti dall’invecchiamento non riuscendo ad accettarli;
- Confusione temporale: gli schemi legati all’orientamento spazio temporale iniziano a saltare (proviamo a metterci nei panni di una persona che non riesce più a capire dove si trova e in quale giorno, anno, stagione stia vivendo);
- Gesti ripetitivi: l’aggravamento del declino cognitivo inizia a coinvolgere anche il canale linguistico, la persona ripete in continuazione gesti che paiono incastonati in una memoria somatica e procedurale (spesso sono azioni che venivano compiute nella quotidianità o nel lavoro);
- Stadio vegetativo: una condizione di pre-morte simile al coma.
Appare evidente come questa condizione si riverberi sui caregiver che, a diverso titolo, sono coinvolti nell’assistenza delle persone con declino cognitivo.

Decadimento cognitivo e impatto sulla famiglia
L’impatto del declino cognitivo e della demenza sulla famiglia viene definito burden. Con questo termine si indica il “peso” a livello emotivo, psicologico, fisico, economico per un caregiver informale (familiare) che presta assistenza a una persona con demenza (Zanotti et al., 2013).
Un primo elemento di sovraccarico che sembra emergere nelle persone che assistono persone con decadimento cognitivo lieve, è il cambiamento della disponibilità di tempo. Occuparsi e/o supervisionare lo svolgimento di azioni quotidiane richiede molto tempo con impatto sull’organizzazione della vita lavorativa e del tempo libero del caregiver. I carichi legati all’isolamento sociale (burden evolutivo), alla compromissione della salute fisica (burden fisico), agli aspetti di burden emotivo e psicologico (rabbia, vergogna per determinati comportamenti del proprio caro, delusione per non vedersi più riconosciuti dal proprio genitore, frustrazione nel constatare che le comunicazioni anche più elementari non vengono trattenute in memoria) sembrano comparire dopo insieme a depressione e ansia (Zanotti et al., 2013).
Alla luce di questi aspetti appare fondamentale pensare a interventi di supporto psicologico per i caregiver informali. Richiedere un supporto psicologico, frequentare gruppi di psicoeducazione o di discussione che coinvolgano altre famiglie coinvolte nell’assistenza, far parte di associazioni dedicate, permette di ridurre il senso di solitudine, isolamento e favorisce lo sviluppo dell’empatia che Zanotti et al. (2013) evidenziano come strumento fondamentale nell’affrontare il carico legato all’assistenza.
Decadimento cognitivo: quali cure?
I principali interventi terapeutici per prendersi cura del declino cognitivo si dividono in:
- Farmacologici;
- Non farmacologici.
Per approdare ad un intervento terapeutico è fondamentale un processo di diagnosi precoce. Da questo punto di vista la valutazione clinica può essere affiancata da alcuni strumenti testistici:
- MoCA (montreal cognitive assessment) e MMSE (Mini mental state examination) sono tra i principali questionari utilizzati per una valutazione globale di funzioni di memoria, attenzione, linguaggio e funzioni esecutive.
- SPMSQ (Short Portable Mental State Questionnaire) o Test di Pfeiffer è un questionario con 10 domande che indagano l’orientamento spazio temporale, la memoria, concentrazione;
- IADL (Instrumental activities of daily living) è un questionario che indaga il livello di autonomia residua nelle attività quotidiane;
- L’AdiCO che valuta la presenza e la gravità di disturbi comportamentali.
Ad oggi non ci sono cure e trattamenti farmacologici efficaci sul deterioramento cognitivo lieve. Per quanto riguarda il MCI, intendendolo come precursore della demenza, si potrebbe ipotizzare una terapia che vada ad agire sulla beta amiloide (il cattivo funzionamento della proteina tau determina la mancata eliminazione di sostanze di scarto come la beta-amiloide che provoca la morte delle cellule). Esistono terapie sintomatiche basate su farmaci che favoriscono la produzione di Colina e su antagonisti del recettore del glutammato (la più famosa è la memantina).
Una menzione speciale meritano gli interventi non farmacologici. La terapia della bambola (alla persona si affida una bambola che viene intesa e accudita come un bambino vero), la terapia del treno (si creano apposite stanze dove si ricostruisce l’ambientazione di un vagone ferroviario e si fa letteralmente viaggiare la persona con demenza attraverso la proiezioni di immagini fuori dal finestrino), la stanza dei ricordi (stanze con arredo che richiama caratteristiche del passato), la terapia del mercato-negozio (si ricreano le condizioni di un esercizio commerciale in cui si vendono e acquistano prodotti), sono esempi di interventi non basati su farmaci. Questi approcci riducono l’espressione di comportamenti problematici (aggressività), ma anche di ansia e depressione con conseguente riduzione dell’uso di sedativi. Anche la stimolazione cognitiva (esercizi che pungolano la memoria, l’attenzione, la concentrazione, il linguaggio, dai proverbi ai cruciverba, dal memory a giochi di parole) è un valido strumento che permette di promuovere le abilità cognitive residue e di rallentare il declino cognitivo.
La prevenzione del decadimento cognitivo
Agire di prevenzione andando ad alimentare la nostra “riserva cognitiva” (Chicherlo, 2012; Longobardi, 2016) può essere utile per contrastare il declino cognitivo. In particolare la prevenzione passa attraverso:
- Riduzione dello stress in ambito lavorativo e del contesto di vita;
- Esercizio cognitivo (dall’enigmistica ai videogiochi che promuovono il problem solving);
- Esercizio fisico e motorio;
- Stimolazione delle capacità cognitive tramite la lettura, la musica, il cinema, il teatro, la socialità.

Come comportarsi con una persona affetta da declino cognitivo
Alla luce della complessità delle manifestazioni del declino cognitivo, non è possibile stilare una lista di comportamenti, ma può essere utile avere in mente alcuni principi:
- Deficit cognitivo non significa assenza di affetti ed emozioni, rispetto ed empatia sono quindi fondamentali per non generare disagio e frustrazione in chi abbiamo davanti;
- Agire riflettendo sui nostri comportamenti e modalità di comunicazione per evitare frustrazione (ad esempio, evitando richieste troppo complesse e preferendo domande che richiedano una risposta “si”, “no”);
- Creare uno spazio in cui prendersi cura del proprio vissuto emotivo in relazione al fornire assistenza.
In contrasto con i metodi che si basano sul riorientamento, sul tentativo di riportare nel qui e ora del tempo, dello spazio e della memoria la persona disorientata con declino cognitivo e demenza, Il metodo Validation messo a punto da Naomi Feil (2002; 2003) propone di validare lo stato emotivo del soggetto. Si tratta di uno sforzo empatico che cerca di ricontattare il vissuto affettivo sottostante al comportamento e al sintomo. Cura della modalità espressiva e comunicativa, del tatto e del contatto fisico, insieme al rispetto profondo per la persona nella sua dignità, sono i pilastri di questo tentativo di creare un ponte con il mondo della persona con demenza. Insomma non chiedermi di ricordare ma siediti accanto a me e abbraccia, nel silenzio di occhi che ridono, chi sono.