Spettatori di sé stessi: riconoscere la depersonalizzazione

Spettatori di sé stessi: riconoscere la depersonalizzazione
Ilaria Tonelli
Redazione
Psicologa a orientamento Psicodinamico
Unobravo
Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica
Pubblicato il
22.10.2025
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I disturbi dissociativi possono rappresentare una sfida significativa per chi ne è affetto e per i professionisti che accompagnano questi pazienti nel percorso di cura. Il presente articolo si propone di fornire una panoramica e un sostegno informativo per chi cerca risposte e comprensione.

Depersonalizzazione: definizione e contesto clinico

La depersonalizzazione/derealizzazione è un disturbo dissociativo caratterizzato da esperienze di distacco da sé stessi (“vedo il mio corpo come se non fosse mio”, “vedo il mondo come se fosse irreale”) che possono diventare persistenti e invalidanti. 

Colpisce circa l’1-2% della popolazione generale in forma clinicamente significativa. Spesso è sottodiagnosticata e vi possono volere molti anni prima che venga riconosciuta.

Chi soffre di depersonalizzazione può trovarsi in situazioni di svantaggio o discriminazione sul lavoro, in ambito sociale o sanitario. Le tutele legali esistono, ma la loro applicazione può dipendere da vari fattori come la gravità del disturbo, la accertata documentazione clinica, la legislazione nazionale, il riconoscimento del disturbo come disabilità, ecc.

Nell’Unione Europea esistono normative che vietano discriminazioni basate su disabilità o condizioni di salute mentale. La European Agency for Fundamental Rights ha rilevato che nella maggior parte degli Stati membri le persone con problemi di salute mentale sono protette dalle leggi contro la discriminazione.
In ambito internazionale, trattati come la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD) prevedono che le persone con disabilità (incluse le disabilità psicosociali) non subiscano discriminazioni e abbiano pari diritti civili e di cittadinanza.

I disturbi dissociativi di personalità, e in particolare il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID), rappresentano un quadro clinico complesso caratterizzato dalla presenza di due o più identità o stati di personalità distinti che si alternano nel controllo del comportamento, accompagnati da amnesie ricorrenti, discontinuità del senso di sé e compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e relazionale.

Secondo il DSM-5-TR, i criteri diagnostici includono:  la frammentazione dell’identità con esperienze di possessione o percezione di sé multipla, lacune mnestiche non spiegabili da normale dimenticanza, sintomi che provocano disagio clinicamente significativo, esclusione di effetti dovuti a sostanze o condizioni mediche generali. 

Foto di Aliaksei Lepik – Unsplash

Diritto a misure ragionevoli (reasonable accommodations)

Le leggi antidiscriminatorie spesso prevedono che, quando una disabilità o una condizione mentale rende difficoltoso svolgere certe attività lavorative, il datore di lavoro debba adottare “misure ragionevoli” per consentire alla persona di lavorare (orari flessibili, pause per terapie, ambienti di lavoro adeguati, ecc.). Negli USA, ad esempio, l’Americans with Disabilities Act (ADA) tutela questi diritti.

In Europa ed in Italia, la legislazione nazionale spesso prevedono obblighi simili, anche se la definizione di cosa sia “ragionevole” varia molto.

Privacy, consenso informato e tutela nella relazione medica

In Italia la Legge 219/2017 definisce il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, stabilendo che nessun trattamento medico può essere iniziato o continuato senza il consenso libero e informato della persona interessata, salvo casi previsti dalla legge. Questo comprende anche il campo psichiatrico.
Chi soffre di depersonalizzazione ha dunque diritto ad essere adeguatamente informato sul proprio stato, sulle possibili terapie, i rischi, le alternative.

Diritto alla salute mentale e accesso alle cure

Le normative sul diritto alla salute mentale prevedono che chi ha disturbi psichiatrici ha accesso alle cure in condizioni di equità, e che non vi sia discriminazione nell’erogazione del servizio sanitario.
Anche le politiche di salute mentale dovrebbero tenere conto della specificità del disturbo: diagnosi corretta, accesso a specialisti, terapie efficaci.

Diritto penale: capacità di intendere e volere

In casi rari, la depersonalizzazione può essere invocata in ambito penalistico quando una persona sostiene che al momento di un atto non fosse in grado di formare una piena intenzione o controllo a causa del distacco soggettivo. Ad esempio, è documentato un caso giudiziario inglese in cui l’imputato descrive di aver agito come se fosse osservatore esterno a sé stesso, a causa di severa depersonalizzazione, per contestare l'intento specifico dell'atto.
Tuttavia, la giurisprudenza tende a trattare la depersonalizzazione più come un fenomeno di percezione/disturbo soggettivo che non necessariamente invalida la capacità giuridico‐penale, salvo che sia accompagnata da gravi alterazioni psichiche riconosciute. Ciò richiede prove mediche solide.

La diagnosi richiede un’accurata valutazione clinica, supportata da strumenti psicodiagnostici (es. Dissociative Experiences Scale). L’intervento terapeutico è di natura multidisciplinare: la psicoterapia (soprattutto orientamenti psicodinamici e trauma-focused come EMDR o terapia sensomotoria) mira all’integrazione delle parti dissociate e alla rielaborazione del trauma; lo psichiatra valuta e gestisce eventuali comorbidità (depressione, ansia, disturbi dell’umore) attraverso un uso mirato di psicofarmaci; gli interventi psicosociali e di supporto educativo favoriscono stabilizzazione, gestione dello stress e reinserimento sociale.

Foto di Uday Mittal – Unsplash

Limiti e sfide nella tutela

Nonostante queste potenziali tutele, ci sono delle difficoltà reali.

Il disturbo non è sempre riconosciuto come disabilità dalle leggi nazionali, soprattutto se considerato “transitorio” o moderato. Spesso è invisibile e può mancare la documentazione clinica valida di supporto che dimostri efficacemente la gravità della condizione psichica della persona.  Vi è inoltre la difficoltà oggettiva di poter chiedere aiuto a causa dello stigma sociale e questo comporta un tacere la condizione per non far emergere un malessere che potrebbe nuocere varie aree sociali e personali: lavoro, relazioni di amicizia, relazioni intime.

Raccomandazioni per chi soffre di depersonalizzazione

La prima condizione importante è ottenere diagnosi precisa da professionisti riconosciuti, con documentazione scritta (relazioni psicologiche/psichiatriche) che descrivano gravità, frequenza e impatto sulla vita quotidiana.

Vi è poi la necessità di informarsi sulle leggi nazionali relative a salute mentale, disabilità e discriminazione, per capire se la propria situazione è protetta.
Nel momento in cui si ottiene la certificazione e le informazioni legali corrette bisogna procedere con la richiesta di accomodamenti sul lavoro quando il disturbo interferisce con funzioni dichiarate “essenziali”: pausa, orari flessibili, modalità di lavoro meno stressanti o adattate, ecc.

Conclusione

La depersonalizzazione, benché spesso trascurata, è un disturbo reale che può avere impatti profondi sulla vita personale, sociale e professionale. Le tutele legali esistono, ma la loro efficacia dipende dal riconoscimento medico, dal quadro legislativo nazionale, dalla documentazione clinica e dalla consapevolezza delle persone coinvolte.

Bibliografia
Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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