I modelli che si sviluppano nella prima infanzia tendono a mantenersi stabili nel corso degli anni e ad essere trasmessi in modo intergenerazionale. Sembra infatti che tendiamo a cercare come partner qualcuno che confermi le credenze e le opinioni che abbiamo costruito su noi stessi, sugli altri e sulle interazioni. Quanto influisce il modello di attaccamento sui legami di coppia?
La teoria dell’attaccamento fu formulata a partire dalle ricerche degli psicologi John Bowlby, Mary Ainsworth e James Robertson. Bowlby aveva già ipotizzato, tra il 1925 e il 1929, che i comportamenti delinquenziali e la mancanza di emozioni manifestati dai ragazzi ospiti del centro dove svolgeva volontariato, fossero collegati alla mancanza di cure genitoriali adeguate nella prima infanzia.
Sulla base di queste osservazioni, nel 1946, avviò uno studio presso la Tavistock Clinic di Londra: insieme a Mary Ainsworth e James Robertson, studiò gli effetti della separazione dalla madre sulla personalità. Lo studio che più di tutti portò delle prove a sostegno delle idee di Bowlby fu il Baltimore Longitudinal Project della Ainsworth (pubblicato nel 1978) che identificò quattro stili di attaccamento nella prima infanzia:
Il sistema di attaccamento è costituito da un insieme di comportamenti che si sviluppano per consentire ai piccoli di garantirsi la vicinanza della figura di accudimento, base sicura da cui muoversi verso l’esplorazione dell’ambiente. Dalle prime interazioni con le figure di accudimento hanno origine anche i Modelli Operativi Interni (MOI), rappresentazioni mentali di sé e degli altri che:
Attraverso le relazioni di attaccamento impariamo a dare un’organizzazione alle nostre esperienze emotive, rendendole prevedibili anche in altri contesti relazionali.
Le persone con un attaccamento sicuro:
La capacità di dare cure sarà bilanciata da quella di richiederle in modo adeguato. Sul versante opposto, chi ha sviluppato un attaccamento disorganizzato:
Gli individui evitanti/distaccati:
Gli ambivalenti/invischiati tenderanno a creare relazioni in cui alternare momenti di fusione con l’altro a momenti di estrema insofferenza accompagnata spesso da esplosioni di rabbia.
Gli individui sicuri riescono a gestire in modo equilibrato emozioni piacevoli e spiacevoli, esprimendo i propri vissuti in modo adeguato e con fiducia nella disponibilità del partner. L’autostima dell’individuo non risente delle eventuali rotture della relazione.
I soggetti evitanti difficilmente riconoscono le emozioni negative: le dissociano escludendole dalla coscienza per non dover sperimentare il dolore di un eventuale rifiuto. Inoltre, spesso, pongono dei limiti alla vicinanza e alle manifestazioni di affetto.
Le persone ambivalenti, hanno imparato che segnali comportamentali dirompenti possono assicurare la vicinanza della figura di accudimento. Così tendono ad esprimere elevati livelli di ansia e rabbia, con lo scopo di mantenere la vicinanza dell’altro percepito come imprevedibile e instabile. Spesso idealizzano estremamente il partner e allo stesso tempo temono di non essere amati come desidererebbero.
Chi ha sviluppato MOI legati all’attaccamento disorganizzato finirà facilmente con il trovare partner maltrattanti o svalutanti, muovendosi dalla percezione di sé e dell’altro come contemporaneamente vittime e aggressori, entrando in circoli viziosi in cui ricerca di vicinanza e paura del coinvolgimento si attivano in modo caotico.
Sebbene le ricerche sembrano dirci che da adulti tendiamo a ricreare i legami tipici delle nostre esperienze precoci di attaccamento, sarebbe sbagliato pensare che sia impossibile interrompere certe linee evolutive: alla luce di nuove esperienze, un cambiamento è sempre possibile.