Attaccamento disorganizzato

Attaccamento disorganizzato
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Antonio Dessì
Redazione
Psicologo ad orientamento Cognitivo-Costruttivista
Unobravo
Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica
Pubblicato il
16.6.2025
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L’attaccamento è un sistema biologico e motivazionale che guida il bambino alla ricerca della vicinanza con le figure di accudimento nei momenti di stress e distanziamento e nei momenti di esplorazione, come teorizzato da John Bowlby. 

Questo legame precoce ha un ruolo essenziale nello sviluppo psicologico e affettivo influenzando la capacità di regolare le emozioni e costruire relazioni sicure nel corso della vita. 

Quando l’ambiente familiare è segnato da trascuratezza, traumi e abusi, paura o incoerenza, il sistema di attaccamento può collassare. Si genera cioè l’attaccamento disorganizzato, caratterizzato da una profonda ambivalenza nei confronti della figura di accudimento, vista al tempo stesso come fonte di conforto e di pericolo. In questo articolo forniremo una panoramica chiara di questa problematica dell’attaccamento, dalle sue origini infantili fino agli effetti in età adulta, con un’attenzione particolare alle implicazioni cliniche e terapeutiche. 

Cos’è l’attaccamento disorganizzato?

L’attaccamento disorganizzato si configura come un’interruzione dei normali scambi tra genitore e figlio e si sviluppa quando il bambino vive figure di accudimento come imprevedibili o spaventanti, generando confusione e paura verso chi dovrebbe offrire protezione e sicurezza.

Il concetto di disorganizzazione dell’attaccamento è stato introdotto da Mary Main e Judith Solomon nel 1986. Si riferisce a quei bambini che, durante un paradigma chiamato Strange Situation, non mostrano un comportamento coerente verso la figura di accudimento (di solito un genitore). 

Nella Strange Situation, ideata dalla psicologa Mary Ainsworth per osservare la relazione tra il bambino e le figure di attaccamento, il piccolo viene separato e poi riunito con il genitore in un ambiente controllato. I bambini con attaccamento disorganizzato possono avere reazioni confuse: a volte si bloccano come se fossero paralizzati, si avvicinano e si allontanano in modo caotico, oppure sembrano spaventati senza motivo.

Secondo la psicologa Maria Angela Di Noia (2009), questi comportamenti nascono da un conflitto interno: nel bambino si attivano allo stesso tempo due spinte opposte, il bisogno di attaccamento e quello di difesa. Quando il genitore, che dovrebbe offrire sicurezza, è percepito come una fonte di paura o pericolo, il bambino si trova in un dilemma senza via d’uscita: vorrebbe cercare conforto, ma allo stesso tempo sente il bisogno di allontanarsi per proteggersi. 

Negli adulti, un passato di attaccamento disorganizzato può emergere attraverso l’Adult Attachment Interview, un’intervista clinica usata per analizzare i modelli affettivi sviluppati nell’infanzia. Le persone con disorganizzazione dell’attaccamento tendono a raccontare le proprie esperienze in modo confuso, con pause improvvise o racconti di traumi che emergono all’improvviso. Questo segnala una difficoltà ad integrare in modo coerente le proprie rappresentazioni interiori delle relazioni affettive, chiamate Modelli Operativi Interni (MOI).

L’attaccamento disorganizzato è spesso difficile da riconoscere, soprattutto nei contesti educativi o familiari quotidiani. Tuttavia, può emergere in modo evidente durante momenti di forte stress o crisi relazionali. Per identificarlo con precisione, è spesso necessaria una valutazione clinica approfondita.

Come si sviluppa l’attaccamento disorganizzato?

L’attaccamento disorganizzato si sviluppa prevalentemente in contesti familiari dove il bambino è esposto a esperienze traumatiche precoci come abuso, trascuratezza, perdita o violenza domestica. 

Lyons-Ruth e Jacobvitz (1999) hanno mostrato che non è raro che la figura di attaccamento sia al tempo stesso spaventata e spaventante. In questi casi, il genitore stesso può essere in uno stato mentale dissociato, inaccessibile emotivamente, e trasmettere al figlio una paura non comprensibile.

La teoria dell’attaccamento evidenzia l’importanza della trasmissione intergenerazionale del trauma: genitori che non hanno elaborato lutti o abusi rischiano di attivare la disorganizzazione nel figlio, anche senza manifestazioni evidenti di maltrattamento. Questo è confermato da studi longitudinali (Carlson et al., 1982; Main & Hesse, 1992) che mostrano una forte incidenza di pattern disorganizzati in bambini i cui genitori hanno vissuto traumi non risolti. 

A livello neurobiologico, la disorganizzazione è associata ad un aumento del rilascio del cortisolo e a una vulnerabilità maggiore alla disregolazione emotiva. È essenziale notare che anche la mancanza cronica di sintonizzazione emotiva, seppur non violenta, può contribuire alla disorganizzazione. La continuità tra esperienze precoci e sviluppo psicopatologico futuro rende fondamentale l’intervento tempestivo con una terapia psicologica mirata.

Sintomi e caratteristiche dell’attaccamento disorganizzato

I bambini con un attaccamento disorganizzato spesso mostrano comportamenti confusi e contraddittori. Per esempio, possono avvicinarsi al genitore guardando altrove, oppure colpirlo senza un motivo evidente. Questi segnali, come spiegano Lyons-Ruth e colleghi (1999), indicano che il bambino non riesce a sviluppare strategie efficaci per affrontare lo stress o per cercare conforto: è come se le sue risposte fossero "in tilt", perché non sa come comportarsi.

Crescendo, queste difficoltà possono continuare a influenzare la vita adulta. Le persone con un attaccamento disorganizzato tendono ad avere relazioni instabili, provano forte ansia legata all’abbandono, fanno fatica a gestire le emozioni e spesso hanno una visione frammentata e incerta di sé stessi.

Lo psicologo Giovanni Liotti (1999) ha evidenziato che la disorganizzazione dell’attaccamento può essere legata anche a stati dissociativi, disturbi dell’identità e a una percezione altalenante degli altri: la persona può sentirsi a tratti vittima, altre volte persecutore, o salvatore, passando da un ruolo all’altro in modo confuso. Questo aumenta il rischio di sviluppare disturbi più gravi, come il Disturbo Borderline di Personalità o i Disturbi Dissociativi, tra cui il Disturbo Dissociativo dell’Identità. In particolare, nelle persone che soffrono di dissociazione, la mente fa fatica a collegare i ricordi emotivi profondi (che spesso sono inconsci) con ciò di cui si è consapevoli. Questo crea una sorta di disconnessione interna, tipica dell’attaccamento disorganizzato. Quando le relazioni passate sono state imprevedibili o spaventose, la persona resta in uno stato di allerta costante, come se si aspettasse sempre qualcosa di brutto. Questo rende difficile sentirsi davvero al sicuro con gli altri, anche in contesti affettivi o terapeutici.

Per questo è importante che genitori, insegnanti, educatori e figure di riferimento imparino a riconoscere questi segnali fin da piccoli, per offrire sostegno, stabilità e protezione. Anche nelle relazioni adulte, sentimentali, familiari o professionali, è utile prestare attenzione a queste dinamiche, cercando di costruire legami basati sulla fiducia, sull’ascolto e sulla continuità. Con il giusto supporto, anche le ferite più profonde possono essere comprese e trasformate.

Attaccamento disorganizzato e relazioni affettive

Le persone con un attaccamento disorganizzato vivono le relazioni affettive in modo molto confuso. Da un lato desiderano profondamente l’intimità, dall’altro hanno una forte paura di essere abbandonate. 

Come spiegano Feeney e Noller (1990), le loro relazioni sono spesso caratterizzate da una forte dipendenza emotiva, ma anche da momenti in cui idealizzano o, al contrario, svalutano il partner. Le emozioni possono passare da un estremo all’altro molto rapidamente. Secondo Liotti (1999), questo tipo di comportamento nasce da vecchie ferite relazionali mai elaborate, che si riattivano nelle storie d’amore. Nelle relazioni adulte possono manifestarsi atteggiamenti come il bisogno di controllo, la paura di esprimere emozioni, la dipendenza eccessiva o un modo disfunzionale di sedurre e affascinare l’altro.

Tutto questo contribuisce a creare legami instabili, dove possono verificarsi anche forme di abuso psicologico o emotivo. Le persone con un attaccamento disorganizzato fanno fatica a dare un senso chiaro alle proprie esperienze affettive. Possono reagire con rabbia improvvisa, sentirsi vuote o mettere in atto comportamenti autolesivi.

La difficoltà a stabilire confini chiari con l’altro può rendere queste persone vulnerabili a relazioni simbiotiche e a rotture improvvise. Spesso alternano momenti in cui idealizzano il partner a momenti in cui non si fidano più, creando relazioni molto intense ma anche molto instabili.

Come gestire l’attaccamento disorganizzato?

Secondo l’approccio Dinamico-Maturativo elaborato dalla psicologa americana Patricia Crittenden, l’attaccamento non è qualcosa di rigido o immutabile, ma un sistema flessibile, che può cambiare nel corso della vita. Questo significa che, anche se una persona ha vissuto esperienze difficili nell’infanzia, può comunque modificare i propri schemi affettivi attraverso relazioni significative, esperienze riparative e percorsi terapeutici ben strutturati.

Diversi tipi di psicoterapia si sono dimostrati efficaci nel trattare i problemi legati a un attaccamento disorganizzato. Tra questi ci sono:

  • La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), che aiuta a riconoscere e cambiare pensieri e comportamenti disfunzionali.
  • La Terapia Basata sulla Mentalizzazione (MBT), sviluppata da Peter Fonagy e Anthony Bateman, che aiuta la persona a comprendere meglio i propri stati mentali e quelli degli altri, migliorando così la qualità delle relazioni.
  • La Compassion Focused Therapy (CFT), ideata da Paul Gilbert, che si concentra sullo sviluppo della compassione verso sé stessi e gli altri, utile soprattutto per chi ha vissuto esperienze di vergogna, colpa o forte autocritica.

La psicologa Marsha Linehan (1993) ha evidenziato quanto sia importante, nel lavoro terapeutico, validare le emozioni della persona e rafforzare la sua capacità di riflettere su sé stessa e sugli altri (abilità chiamate metacognitive). 

Uno strumento utile in terapia è il cosiddetto "triangolo drammatico" (spesso utilizzato nell’analisi transazionale ideata da Erik Berne negli anni ‘50), che aiuta a identificare e trasformare ruoli interiorizzati come quello della vittima, del salvatore o del persecutore, che spesso si ripetono nelle relazioni. Anche la terapia di gruppo o le co-terapie, come suggerisce lo psicoterapeuta Giuseppe Ivaldi (2004), possono offrire esperienze relazionali nuove e positive, riducendo il rischio di abbandonare la terapia (drop-out).

Insieme alla psicoterapia, anche strategie di auto-aiuto possono dare un contributo importante: ad esempio la mindfulness, il journaling (scrivere le proprie emozioni ed esperienze) e gli esercizi di regolazione emotiva aiutano a entrare più in contatto con sé stessi e con ciò che si prova.

Infine, per favorire un cambiamento duraturo, è fondamentale costruire relazioni basate sulla reciprocità, l’empatia e la coerenza. Anche se è un processo che richiede tempo e pazienza, il cambiamento è possibile a qualsiasi età, soprattutto grazie a esperienze emotive nuove e a relazioni terapeutiche solide e accoglienti.

Conclusione

L’attaccamento disorganizzato è una ferita profonda che si sviluppa spesso in famiglie dove sono presenti traumi, mancanza di coerenza emotiva o situazioni di forte stress. Anche se nasce nei primi anni di vita, i suoi effetti possono durare a lungo, influenzando il modo in cui una persona vive le relazioni e il proprio benessere emotivo anche da adulta. La buona notizia è che il cambiamento è possibile.

Capire da dove nasce questo tipo di attaccamento è il primo passo per avviare un percorso di crescita e miglioramento. Per questo è importante promuovere una cultura della consapevolezza, che coinvolga genitori, insegnanti e chi si prende cura dei bambini e dei ragazzi. Un adulto attento e presente può fare una grande differenza: riconoscere segnali di disagio, creare un dialogo aperto e offrire uno spazio sicuro di ascolto sono azioni fondamentali per sostenere lo sviluppo emotivo sano.

Anche nel mondo adulto, imparare a riconoscere certe dinamiche nelle relazioni affettive, come la paura dell’abbandono, la difficoltà a fidarsi o le reazioni emotive intense, può aiutare a rompere schemi disfunzionali e iniziare un percorso di cambiamento. Rivolgersi a professionisti della salute mentale può offrire uno spazio sicuro in cui esplorare le proprie emozioni, rielaborare il passato e costruire nuove modalità relazionali.

Come ricordava lo psicoanalista John Bowlby (1988), sono le relazioni stabili e significative che ci aiutano a trasformare l’immagine che abbiamo di noi stessi e degli altri. Accettare la propria vulnerabilità non è un segno di debolezza, ma un punto di partenza per crescere e diventare più forti. Il fatto che i nostri Modelli Operativi Interni, cioè le idee che abbiamo su noi stessi e sulle relazioni, possano cambiare, ci ricorda che la nostra storia non è mai del tutto scritta. Con il tempo, la cura e le relazioni giuste, è sempre possibile muoversi verso un senso di sicurezza emotiva più solido e autentico.

Se senti che alcune di queste dinamiche ti appartengono, puoi iniziare a prenderti cura di te compilando il nostro questionario conoscitivo: ti aiuterà a individuare lo psicologo o la psicologa più adatto alle tue esigenze. Il primo passo può cominciare oggi.

Bibliografia
Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista. Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica

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