Principali evidenze
- Solo un terzo dei lavoratori (33,5%) si sente a proprio agio nel parlare di salute mentale con il proprio capo, mentre oltre il 40% prova disagio o teme ripercussioni.
- Più della metà (51,1%) crede che parlare di salute mentale possa avere un impatto negativo sulla carriera, alimentando il silenzio e lo stigma.
- L’84,7% considera la salute mentale l’aspetto più difficile da rivelare al datore di lavoro, più di problemi legati alla salute del corpo.
- Due condizioni in cima alla lista delle più difficili da discutere sono depressione (46,1%) e stress/burnout (41%).
- Quasi 7 lavoratori su 10 non sono a conoscenza delle risorse per lil benessere mentale disponibili in azienda; solo il 14,7% dichiara che l’argomento è apertamente incoraggiato in ambito lavorativo.
- Le azioni più richieste per migliorare il comfort sono la formazione dei dirigenti (46,3%), le iniziative aziendali per la salute mentale (31,3%) e i canali di supporto anonimi (15,6%).
Parlare di salute mentale con il proprio capo, per molti lavoratori, rimane una sfida complessa. Nonostante una crescente attenzione al benessere psicologico in azienda, i dati rivelano che lo stigma, la paura del giudizio e il timore di ripercussioni sulla carriera continuano a frenare le conversazioni aperte su questo tema. La nuova indagine di Unobravo esplora quanto ci si senta davvero a proprio agio nell’affrontare questi temi con i dirigenti, quali ostacoli persistono e quali azioni concrete potrebbero aiutare a costruire luoghi di lavoro più sicuri, inclusivi e attenti al benessere mentale di chi li vive ogni giorno.
Livelli di comfort nel parlare di salute mentale con i dirigenti
I dati rivelano che mentre un terzo degli intervistati (33,5%) si sente in qualche modo a proprio agio nel parlare di problemi di salute mentale con il proprio capo, se necessario, una parte significativa esprime ancora disagio o incertezza. Oltre il 40% dei partecipanti riferisce sentimenti negativi: il 20,2% afferma che non parlerebbe mai di salute mentale con il proprio capo e il 20,1% esprime preoccupazione per il giudizio o le potenziali conseguenze.
Solo il 13,8% si sente molto a suo agio e supportato in queste conversazioni, evidenziando come un ambiente di lavoro sensibile a tali delicate tematiche e aperto al dialogo rimane l'eccezione piuttosto che la norma. Nel frattempo, il 12,1% rimane incerto, riflettendo una mancanza di chiarezza sulla posizione del proprio manager o sulla propria disponibilità ad affrontare questa discussione.
Nel complesso, i risultati suggeriscono la persistenza dello stigma e del rischio emotivo legati al dialogo sulla salute mentale in ambito professionale.
Rischi di carriera percepiti quando si parla di salute mentale sul lavoro
Una leggera maggioranza (51,1%) ritiene che parlare di salute mentale sul lavoro possa avere un impatto negativo sulla propria carriera. Questa percentuale suggerisce una preoccupazione diffusa tra i dipendenti per le potenziali conseguenze professionali, come essere percepiti come meno capaci, subire uno stallo nell'avanzamento di carriera o incontrare sottili pregiudizi.
Allo stesso tempo, il 48,8% degli intervistati non condivide questa preoccupazione. I dati indicano una forza lavoro divisa: mentre alcuni si sentono sicuri nel parlare di salute mentale, altri continuano a considerarla un rischio professionale. Ciò sottolinea l'importanza di una cultura del lavoro trasparente e di pratiche di leadership che riducano attivamente lo stigma.
Motivi di esitazione nel parlare di salute mentale con un manager
La ragione più citata per l'esitazione è la convinzione che i dirigenti non capiscano o non si preoccupino per i lavoratori (26%), seguita da vicino dal timore di essere visti come deboli o non professionali (23,6%). Queste risposte suggeriscono che la mancanza di empatia o di sostegno percepito da parte dei dirigenti rimane un ostacolo fondamentale.
Anche le preoccupazioni per la sicurezza del posto di lavoro e per le promozioni future (19,1%) pesano molto sulla mente dei dipendenti, riflettendo le potenziali conseguenze sulla carriera che le persone associano all'apertura. Mentre il 17,8% non riferisce alcuna esitazione, indicando un certo grado di fiducia, le altre risposte evidenziano sfide strutturali e culturali. L'11% afferma che il proprio posto di lavoro non incoraggia queste conversazioni e una piccola parte (2,2%) teme che i colleghi possano scoprirlo. Nel complesso, i dati indicano una persistente combinazione di stigma, sfiducia e cultura del luogo di lavoro che continua a inibire un dialogo aperto sul benessere mentale.
Un problema di salute mentale rimane l'argomento più difficile da rivelare ai datori di lavoro
L'84,7% degli intervistati afferma che un problema di salute mentale, come l'ansia o la depressione, sarebbe il tipo di problema di salute più difficile da condividere con il management, superando di gran lunga i problemi biologici (10,3%) e fisici (4,9%). Ciò segnala un netto divario nel modo in cui la salute mentale viene percepita e trattata sul posto di lavoro rispetto ad altre forme di malattia.
Quali sono i problemi di salute mentale più difficili di cui parlare?
Alla domanda su quali siano i problemi specifici di salute mentale più difficili di cui parlare, la depressione (46,1%) e lo stress o il burnout (41%) sono in cima alla lista. L'ansia, pur essendo ancora presente, è percepita come leggermente più accessibile (12,7%). Questi risultati suggeriscono che più una condizione è percepita come grave o complessa, più disagio o stigma la circonda nelle conversazioni sul posto di lavoro.
Nel complesso, i dati evidenziano un persistente disagio nel parlare di salute mentale sul lavoro, in particolare di condizioni associate a vulnerabilità emotiva o impatto a lungo termine. Ciò indica la necessità di continuare a educare i lavoratori, di formare i dirigenti e di avviare iniziative di riduzione dello stigma per contribuire a colmare il divario tra la divulgazione della salute mentale e fisica.

Consapevolezza, cultura e lacune nel supporto alla salute mentale sul lavoro
La maggior parte degli intervistati (66,4%) dichiara di non essere a conoscenza di alcuna risorsa per la salute mentale disponibile sul proprio posto di lavoro, rivelando un significativo gap comunicativo o strutturale. Anche per il 33,5% che è a conoscenza di queste iniziative, questo non si traduce necessariamente in una cultura che supporta apertamente le conversazioni sulla salute mentale.
Per quanto riguarda il modo in cui la salute mentale viene gestita nella pratica, solo il 14,73% afferma che questi argomenti sono apertamente incoraggiati e sostenuti. Molto più comuni sono gli ambienti in cui la salute mentale viene discussa solo in privato (34,99%) o semplicemente citata nelle politiche senza un dialogo significativo (30,59%).
È allarmante notare che quasi un dipendente su cinque (19,69%) riferisce che tali discussioni vengono attivamente ignorate o scoraggiate, evidenziando il persistere di uno stigma e la mancanza di supporto istituzionale.
Cosa potrebbe aiutare i dipendenti a sentirsi più a proprio agio?
Per sostenere meglio le conversazioni aperte sul benessere mentale, gli intervistati hanno identificato azioni chiare sul posto di lavoro che potrebbero fare la differenza. Quasi la metà (46,3%) afferma che una formazione dei dirigenti sulla consapevolezza della salute mentale li aiuterebbe a sentirsi più a proprio agio.
Altri sottolineano il valore delle iniziative aziendali per la salute mentale (31,3%) e dei canali di supporto anonimi (15,5%). Solo una piccola parte (6,8%) afferma che nulla li farebbe sentire a proprio agio.
I dati suggeriscono che la maggior parte dei dipendenti è disposta a impegnarsi, purché il luogo di lavoro crei le condizioni giuste.
L'insieme di questi dati rivela un'opportunità cruciale: le aziende che adottano misure concrete e visibili per promuovere una cultura di supporto, soprattutto attraverso la formazione dei dirigenti, possono migliorare significativamente il comfort e la fiducia dei dipendenti nei confronti dei temi legati alla salute mentale.
Rientro al lavoro: la sfida di settembre secondo l’indagine di Unobravo
- Al rientro, 1 su 4 già teme burnout e insuccesso personale, mentre per oltre 1 su 3 i pesi maggiori sono stress e preoccupazioni economiche.
- Burnout diffuso: più del 60% lo ha vissuto almeno una volta, quasi il 20% ha lasciato il lavoro per questo motivo - tra chi lavora da remoto il dato sfiora il 30%.
- Quasi il 70% si sentirebbe a proprio agio a partecipare a sessioni di supporto psicologico in azienda. Il 65% di chi già ne usufruisce li considera preziosi.
In Italia, il mese di settembre rappresenta sempre più spesso un momento critico nella vita lavorativa e personale. Non si tratta semplicemente della ripresa post-ferie, ma di una vera e propria fase di transizione che incide sulla percezione della produttività, sulla motivazione e sul benessere mentale delle persone. Per alcuni, settembre segna una nuova partenza; per altri, è il riavvio di una “ruota” che non si ferma mai, generando stress, ansia o disconnessione.
Per indagare questo momento chiave dell’anno, Unobravo ha condotto un sondaggio condotto su 1.000 persone in collaborazione con Dynata, il più grande first-party data provider al mondo. L’indagine ha coinvolto un campione rappresentativo della popolazione italiana tra i 20 e i 55 anni, con l’obiettivo di analizzare i vissuti psicologici legati al rientro nella routine e al rapporto con il lavoro.

Pressione e aspettative: come viene vissuto il rientro
Settembre segna per molti un momento di ripartenza carico di aspettative: un quarto del campione (25%) lo vive come una ripresa da dove si era lasciato, seppure accompagnata da una certa pressione. Ancora più diffusa è la percezione di dover “tenere il passo”: il 66% dei rispondenti afferma di sentirsi inadeguato rispetto agli altri, come se tutti stessero facendo meglio. Un dato che evidenzia quanto la performatività sociale influenzi il vissuto quotidiano.
Questa tendenza al confronto si accentua tra i più giovani: nella fascia 20-24 anni, quasi un intervistato su tre (30%) vive settembre con pressione legata alla necessità di “riattivarsi”, mentre ben l’85% si sente in svantaggio rispetto agli altri, schiacciato dal peso delle aspettative e dalla continua comparazione con ciò che vede intorno a sé.
Alla domanda su quanto frequentemente ci si senta intrappolati in un ciclo di aspettative, performance e pressione, più di un terzo (35%) ha risposto "spesso", mentre più della metà (59%) ha indicato di vivere questa sensazione occasionalmente. Il fenomeno è particolarmente evidente nella fascia 20-34 anni, dove la stragrande maggioranza (86%) degli intervistati afferma di sperimentare questo stato emotivo.
Le principali criticità della ripresa lavorativa
Lo stress legato al rientro non si limita allasfera emotiva. Il 37% del campione cita tra le difficoltà principali lo stress e le preoccupazioni economiche. Seguono, entrambi al 28%, la percezione di essere in ritardo rispetto ai propri obiettivi personali e il burnout o la pressione legata al carico di lavoro. Per 1 su 4 (27%), il vero nemico è la pressione costante alla produttività.
Famiglia e carichi mentali: un equilibrio da ripensare
La complessità del rientro si gioca anche sul piano familiare, dove le responsabilità quotidiane spesso si sommano a quelle professionali. I padri dichiarano di sentire più delle madri il peso delle pressioni familiari (32% contro 28%) e del sovraccarico genitoriale (come la gestione scolastica e il relativo carico emotivo), con un dato del 41% contro il 30%. Al contrario, le madri risultano maggiormente esposte a burnout o pressione lavorativa rispetto ai padri (36% contro 22%).
Il rischio burnout a settembre ma non solo
La condizione di burnout apre le porte a una conversazione più ampia sul tema del malessere sul posto di lavoro: secondo il MINDex, il Barometro sul Benessere Mentale degli Italiani, lanciato da Unobravo in occasione del World Mental Health Awareness Month a Maggio, oltre il 60% dei lavoratori dichiara di aver sperimentato, almeno occasionalmente, stress o burnout sul lavoro, e il 18% ha lasciato un impiego per questo motivo. L’indagine è stata condotta su un campione casuale di 2250 adulti tra i 18 e i 50 anni in Italia, con un elevato numero di risposte femminili e di età superiore
La fascia d’età 30-39 anni è quella più colpita dalle difficoltà legate alla salute mentale sul lavoro: il 65% ha lasciato o preso in considerazione l’idea di lasciare il proprio lavoro a causa di stress, burnout o mancanza di supporto psicologico. Anche le generazioni più giovani (18-29 anni) riportano difficoltà significative: il 64% ha sperimentato almeno occasionalmente stress o burnout in ambito lavorativo.
I lavoratori tra i 40 e i 50 anni sono meno inclini rispetto alla media a dichiarare di aver vissuto situazioni di stress o burnout (o ad ammetterlo): il dato in questa fascia si ferma al 56%. Le donne sembrano essere più propense a lasciare il lavoro per motivi legati al fattore stress: il 22% del campione femminile dichiara di aver lasciato il proprio impiego per queste ragioni, contro il 14% di quello maschile.
I lavoratori da remoto sono quelli che, più di tutti, hanno abbandonato un impiego per ragioni legate allo stress o alla salute mentale, con una percentuale del 28%.
Molti preferiscono il silenzio al giudizio. Dalla ricerca, emerge infatti che 1 lavoratore su 3 tende a trattenere il disagio, temendo di apparire debole o poco professionale (32%); il 12% confessa di sentirsi costretto a “indossare una maschera”, ogni giorno, per andare avanti sul lavoro.