Psicologia infantile
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Il gioco: uno dei possibili “linguaggi” dei bambini

Il gioco: uno dei possibili “linguaggi” dei bambini
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Paola Izzo
Redazione
Psicoterapeuta ad orientamento Psicoanalitico
Unobravo
Articolo revisionato dalla nostra redazione clinica
Pubblicato il
7.2.2020

Il gioco viene descritto come un’attività intrinsecamente piacevole che si fa senza un preciso obiettivo. Ma a cosa serve? Che valore formativo ha per i bambini? E qual è il ruolo dell’adulto? Le funzioni del gioco sono state oggetto di studio di numerosi ricercatori che ne hanno indagato le varie funzioni all’interno delle diverse dimensioni dello sviluppo. Facciamo un breve excursus per capire meglio l’evoluzione delle interpretazioni del gioco nella psicologia dell’infanzia.

Il gioco: studi e teorie nella ricerca scientifica

Nel corso dell’Ottocento si sono sviluppate due opposte teorie sulle funzioni emotive del gioco, delle quali ritroviamo traccia nel senso comune:

  • il filosofo H. Spencer riteneva che nel gioco l’individuo libererebbe il surplus di energia rimasta dopo l’esecuzione di una serie di azioni necessarie alla sopravvivenza;
  • lo psicologo M. Lazarus, invece, riteneva che il gioco servirebbe al rilassamento del bambino, poiché è un'attività libera e piacevole, esente da vincoli, fine a se stessa.

È stato lo studioso J. Huizinga il primo a teorizzarne la funzione sociale, mentre il sociologo e psicologo G. Bateson evidenziò la valenza terapeutica del gioco che, proprio per la sua intrinseca natura, non può essere imposto.

Infine, secondo la psicoanalista Melanie Klein, il gioco rappresenta un osservatorio privilegiato per osservare i conflitti interni del bambino e il suo modo di elaborare avversità e traumi. Infatti, l’osservazione del gioco infantile può essere utilizzata anche in contesto forense per esaminare maltrattamenti e traumi che i bambini non riescono a verbalizzare.

Le evoluzioni teoriche del gioco

Freud ha assegnato al gioco simbolico un ruolo centrale nello sviluppo affettivo del bambino. Una sorta di “risarcimento” dai conflitti interni, che permette al bambino di gestire in modo adeguato le sofferenze. Il gioco, in tal modo, diventa luogo privilegiato in cui esprimersi laddove non si possiedono capacità cognitive, linguistiche ed emotive per farlo. È nel gioco che il bambino incanala quegli aspetti interni che altrimenti non troverebbero espressione.

Per lo psicanalista D. Winnicott il gioco si colloca nell’area intermedia o transizionale, cioè nel campo d’esperienza sospesa tra il soggettivo e l’oggettivo, tra la fantasia e la realtà, tra ciò che è reale e ciò che non lo è: questa esperienza ha un ruolo chiave nello sviluppo del bambino.

Markus Spiske - Pexels

Un’attività fondamentale per lo sviluppo del bambino

Secondo lo psicologo J. Bruner il gioco è da mettere in relazione con lo sviluppo delle capacità di problem solving e di adattabilità del bambino alle varie situazioni. Poiché nel gioco i mezzi prevalgono sui fini, il soggetto può focalizzare i suoi sforzi sul procedimento, più che sul prodotto finale.

Ciò mette al riparo dal rischio di insuccesso e, quindi da possibili vissuti di frustrazione, per riuscire a padroneggiare combinazioni sempre più complesse e persino inedite di comportamenti. Il gioco, inoltre:

  • favorisce le rappresentazioni mentali e il linguaggio del bambino;
  • sollecita il rafforzamento dell’attitudine al ragionamento, la creatività, la metacognizione.

Per lo psicologo e pedagogista J. Piaget, le attività imitative e di gioco permettono al bambino di comprendere una serie di aspetti legati all’ambiente, alla natura ed al suo funzionamento. Sin dai primi mesi di vita il neonato imita comportamenti secondo i modelli proposti dagli adulti che si prendono cura di lui, per adattarsi in modo sempre più adeguato e competente alle situazioni problematiche incontrate nell’ambiente in cui è immerso. 

Quale ruolo per gli adulti?

Il giocare e il saper giocare rappresentano un segnale importante del benessere del bambino. Anche la scuola non ha potuto tralasciare la valenza pedagogica del giocare e soprattutto il fatto che, anche quando si parla di bimbi molto piccoli, fin dall' ingresso all’asilo nido il gioco stesso diventa la modalità privilegiata per comunicare, anche attraverso il linguaggio del corpo, sia con il proprio mondo interno che con quello esterno.

L’adulto può considerare il gioco, non tanto in termini di contenuti quanto di modalità, come l’osservatorio privilegiato per conoscere il fanciullo, per cogliere ed accogliere le sue difficoltà:

  • la conoscenza si basa e si articola fin dai primi giorni di vita;
  • le prime esperienze ludiche hanno una dimensione corporea e investono il rapporto con chi si prende cura del bambino;
  • il corpo rappresenta il canale privilegiato per sperimentare non solo sensazioni, ma anche per fare scoperte.

Man mano che cresce, il bambino si relazionerà con il mondo esterno, con altri adulti della famiglia, poi con i pari e con gli educatori. Attraverso queste esplorazioni di nuovi rapporti, il bambino costruirà la propria conoscenza del mondo, il suo sapere e troverà una propria modalità espressiva.

“Il bambino non gioca per imparare ma impara perché gioca.” B. Aucouturier
Yan Krukov - Pexels

Giocare è una cosa seria

La pedagogista A. Bondioli sottolinea la valenza pedagogica del gioco e assegna all’adulto un ruolo di primo piano, come promotore di conoscenze e capacità simboliche. In questa prospettiva, l’adulto diventa “garante”, cioè colui che sostiene il processo di crescita del bambino nelle sue prime manifestazioni e nella sua evoluzione. Ma in che modo l’adulto può sostenere la crescita del bambino?

Giocare è una cosa seria. Con il gioco il bambino comunica, sperimenta e si relaziona. Il gioco va incoraggiato e sostenuto come strumento di piacere ma anche di apprendimento, fatto quindi di libertà espressiva, ma anche di regole che mediano il rapporto con l’altro. La figura genitoriale/educativa è quella in grado di sostenere e accompagnare il bambino nelle sue attività, finché egli non è in grado di praticarle in autonomia.

L’educazione al gioco

L’adulto assume un altro importante ruolo, quello dell’educazione al gioco. Pensiamo a quelli che hanno carattere competitivo: si tratta di imparare a misurarsi lealmente senza tirarsi indietro e senza eccedere in aggressività, rancore o vendetta.

Questi sono esempi di educazione specifica, situazioni che richiedono l’intervento dell’adulto laddove i bambini o i ragazzi non riescono a cavarsela da soli perché:

  • ancora immaturi per prendere atto dell’emozionalità suscitata dalla situazione;
  • da soli o con l’aiuto dell’adulto possono apprendere a stare in rapporto all’altro.

Questo è un contenuto divulgativo e non sostituisce la diagnosi di un professionista.

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