Trovandoci in una situazione di pericolo, ognuno di noi elabora in maniera più o meno consapevole delle strategie difensive: questo è quello che accade anche alle donne vittime di violenza.
A differenza delle strategie di coping, che possono avviare un processo consapevole nella persona, i meccanismi di difesa psicologici sono “risposte automatiche” che la nostra mente mette in atto per proteggersi di fronte a situazioni stressanti. La loro funzione è quindi protettiva e difensiva ma, come vedremo nel caso della violenza di genere, non sempre tali meccanismi hanno effetti positivi per il benessere della persona.
Per questo motivo, prendere consapevolezza delle proprie difese è molto importante nel percorso di cura per chi è vittima di violenza. In particolare, le donne che sviluppano una maggiore consapevolezza psicologica tendono a riconoscere più chiaramente le difficoltà relazionali connesse a esperienze traumatiche del passato (Zamir & Lavee, 2014).

La violenza di genere
La violenza contro le donne, come sancito dalla Convenzione di Istanbul del 2011, è a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani.
All’art. 3 si legge:
“con l’espressione ‘violenza nei confronti delle donne’ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata.”
Numerose sono le iniziative promosse a livello internazionale per la lotta alla violenza di genere, tra cui l’istituzione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di una Giornata per l'eliminazione della violenza contro le donne. Qual è la situazione in Italia?
Secondo i dati Istat del 2022 in Italia, rispetto all’anno precedente, sono aumentate le chiamate al 1522 (numero a disposizione delle vittime di violenza di genere e stalking).
Dati alla mano, il 97,7% delle chiamate al 1522 provengono da donne, di cui
- più della metà (53%) ha figli
- il 50% ha subito violenza da partner attuali
- il 19% da ex partner
- lo 0,7% da partner occasionali.
La maggior parte di loro dichiara di non aver denunciato per paura della reazione dell’aggressore (20% dei casi) o per non compromettere il contesto familiare (18,5% dei casi), mentre nel 7,1% dei casi l’allontanamento e la denuncia non arrivano perché la donna non sa dove andare. Come vedremo, i meccanismi di difesa psicologici che si innescano nella violenza di genere sono uno dei possibili ostacoli all’allontanamento e alla denuncia.
Tipi di difese nelle donne vittime di violenza
I meccanismi di difesa sono spesso risposte apprese nell'infanzia, in situazioni avverse in cui si sperimentano emozioni come intensa paura, orrore o impotenza e in cui non c’era altro modo per proteggersi.
Tali meccanismi si attivano poi in ogni nuova situazione di pericolo, come può essere il subire aggressività e violenza.
Comprendere le proprie strategie di difesa, la loro origine e funzione, può aiutare la vittima a far fronte a emozioni dolorose come il senso di colpa. Questo può anche contribuire a interrompere la spirale della violenza, che sappiamo può investire anche i figli nella forma della violenza assistita. Quando analizzati insieme, solo le strategie di coping risultano predittive significativi: il coping di tipo disengagement è associato a un rischio maggiore di rivittimizzazione (incremento del 29% per ogni deviazione standard), mentre il coping di tipo engagement è associato a un rischio minore (riduzione del 30% per ogni deviazione standard) (Iverson et al., 2013).
In molti casi, questo significherà apprendere delle strategie alternative di autoregolazione emotiva, attingendo alle risorse di ciascuna. È importante considerare che l’utilizzo di strategie di coping di disimpegno (disengagement) per affrontare l’aggressione sessuale è stato associato a un maggiore livello di disagio psicologico generale e alla presenza di sintomi di disturbo post-traumatico da stress (Santello & Leitenberg, 1993).
Vediamo quindi quali sono i tipi di difese più comunemente utilizzate dalle donne vittime di violenza, chiarendo che questi ultimi non fungono assolutamente da “attenuanti” per l’aggressore né sono riconducibili a responsabilità della vittima in quanto meccanismi inconsci di protezione.

Negazione
La negazione è una reazione che si presenta comunemente nelle prime fasi della violenza e che serve a proteggersi da una situazione traumatica non guardandola. Gli aspetti negativi e insostenibili della realtà vengono messi da parte, eclissati.
Quando è attiva la negazione dopo aver subito violenza si può, per esempio, scherzare su quanto accaduto o cercare di normalizzare i fatti. Come è facile immaginare, la presenza del meccanismo di negazione può essere anche molto rischiosa, perché porta a non proteggersi da abusi e maltrattamenti.
Una donna che nega, può decidere di incontrare il suo aggressore, anche dopo aver subito violenza, dicendo a se stessa qualcosa come “Non è possibile che abbia fatto una cosa del genere, lo ha fatto perché aveva bevuto”.
Evitamento
In maniera simile a quanto accade per la negazione, l’evitamento indica la difficoltà a prendere contatto con un’esperienza traumatica come può essere la violenza di coppia.
Nei racconti di una donna che subisce violenza, è possibile osservare la difesa dell’evitamento: non è raro infatti che essa si perda in dettagli secondari, mantenendo così una certa distanza dal problema principale.
Un altro esempio è dato dalla tendenza a evitare situazioni che possono far “scattare” l’aggressore. Si cerca di mantenere la pace, evitando di fare o dire qualsiasi cosa possa creare problemi.
In questo modo si ha l’illusione di aver trovato una strategia per affrontare la situazione ma, una delle possibili conseguenze di tutto questo, è la procrastinazione della denuncia.
Dissociazione
La dissociazione è una strategia difensiva che consente di prendere le distanze da una situazione intollerabile, in cui può non esserci altra via d’uscita per allontanarsi da aggressività e violenza.
Essa impedisce di integrare pensieri, emozioni ed eventi, ed è comune in tutte le persone che vivono uno stress post traumatico.
Nel film Precious (2009) possiamo vedere un esempio di dissociazione nelle scene in cui la protagonista immagina sé stessa che balla e canta mentre subisce una violenza domestica di tipo sessuale da parte del padre.
In alcuni casi, questo meccanismo di difesa prende la forma della depersonalizzazione: la persona si sente spettatrice di ciò che sta vivendo, come se la situazione di violenza riguardasse qualcun altro e non lei.
In questo modo la vittima può dirsi che quello che sta accadendo non sta succedendo realmente a lei.
Minimizzazione
La minimizzazione consiste nel sottostimare l’importanza di alcune cose, il che diventa particolarmente pericoloso quando porta a sottovalutare situazioni che possono mettere a rischio la propria incolumità.
Dopo aver subito un’aggressione fisica, per esempio, si potrebbe pensare “è stata solo una spinta, non mi sono fatta nulla di grave”.
Questo modo di pensare potrebbe essere condiviso sia dall’aggressore che da altre persone che circondano la donna vittima di violenza. Frasi come “sono cose che succedono a tutte le coppie”, “è una brava persona, ha dei modi un po' bruschi ma non farebbe mai del male alla moglie” ne sono un esempio.
Razionalizzazione
La razionalizzazione o intellettualizzazione è una difesa che ci mantiene scollati dalle nostre emozioni. Quando l’esperienza è traumatica, contattarla può diventare infatti troppo doloroso.
La vittima si perde così in ragionamenti per spiegare a se stessa i motivi del comportamento del suo aggressore, cercando di comprenderli a livello razionale.
Prendiamo per esempio il caso di una donna che subisce violenza psicologica da parte di un uomo geloso. Quello che potrebbe dirsi razionalizzando è che la gelosia e i problemi di fiducia del partner sono comprensibili alla luce delle sue precedenti relazioni di coppia.
In questo modo, la donna non solo mantiene distante da sé tutto quello che prova, ma corre anche il rischio di giustificare il suo aggressore. Lo stesso meccanismo può essere adottato dalle persone che la circondano: “Non può aspettarsi che si comporti diversamente, è naturale che lui faccia così quando esce con le amiche”.
Idealizzazione
Quando idealizziamo qualcuno è come se mettessimo sotto una lente di ingrandimento le sue qualità positive, ignorando o minimizzando i suoi difetti.
Nelle storie delle donne vittime di violenza possiamo sentir parlare di relazioni che iniziano con un colpo di fulmine, in cui si avvertono le farfalle nello stomaco e ci si sente travolti dalla passione.
L’idealizzazione può far sì che non si prenda tempo sufficiente per conoscere il partner, trovandosi in un batter d’occhio a sviluppare un legame di dipendenza affettiva nei suoi confronti.
Così, anche se vittima di abusi, la donna può continuare a pensare “Non posso immaginare di vivere senza di lui”.
A volte l’idealizzazione può essere sostenuta da alcune credenze disfunzionali, come l’idea che comportamenti di controllo e gelosia in amore siano indici dell’attaccamento del partner: “Se controlla il mio cellulare è perché ci tiene a me” è un esempio di questo modo di pensare.
È possibile anche che l’idealizzazione faccia aggrappare la donna a quei rari momenti positivi vissuti con il suo aggressore, sottovalutando le minacce e arrivando a bloccare l’accesso alle memorie traumatiche.

Esempi concreti di meccanismi di difesa: storie dalla realtà
Per comprendere meglio come i meccanismi di difesa si manifestano nella vita quotidiana delle donne vittime di violenza, è utile osservare alcune situazioni tipiche, ispirate a casi clinici e testimonianze reali (i dettagli sono modificati per tutelare la privacy).
- Negazione: Anna, dopo aver subito un'aggressione dal partner, racconta all'amica che "non è successo nulla di grave, era solo molto stressato". In questo modo, cerca di proteggersi dal dolore e dalla paura, ma può rischiare di non riconoscere la gravità della situazione.
- Evitamento: Lucia evita di parlare con chiunque della sua relazione e cambia argomento ogni volta che qualcuno le chiede come sta. Preferisce non affrontare la realtà, sperando che il problema si risolva da solo.
- Dissociazione: Durante un episodio di violenza, Marta si sente come se stesse guardando la scena dall'esterno, come se non fosse lei la persona coinvolta. Questa sensazione di distacco la aiuta a sopportare il momento, ma può lasciarla confusa e disorientata dopo.
- Minimizzazione: Dopo essere stata insultata e spinta, Giulia pensa: "Forse ho esagerato io, in fondo non mi ha fatto male davvero". Così, sottovaluta il rischio e rimane nella relazione.
- Razionalizzazione: Francesca giustifica i comportamenti aggressivi del compagno dicendo che "ha avuto un'infanzia difficile" o "è solo molto geloso perché mi ama". Questo la porta a non ascoltare le proprie emozioni di paura e disagio.
- Idealizzazione: Silvia ricorda solo i momenti belli con il partner e si aggrappa all'idea che "in fondo è una brava persona". Ignora i segnali di pericolo e spera che tutto possa tornare come all'inizio.
Questi esempi mostrano come i meccanismi di difesa possano essere potenti e, in alcuni casi, ostacolare la consapevolezza della violenza subita.
Meccanismi di difesa ed emozioni: un legame profondo
I meccanismi di difesa non agiscono mai da soli: sono strettamente legati alle emozioni che la vittima prova durante e dopo gli episodi di violenza.
- Paura: Spesso la paura di ritorsioni, di non essere credute o di perdere la propria rete di supporto spinge a negare o minimizzare ciò che si sta vivendo.
- Vergogna: Sentirsi "sbagliate" o colpevoli può portare a evitare il confronto con la realtà, alimentando l'isolamento e la difficoltà a chiedere aiuto.
- Senso di colpa: Molte vittime si sentono responsabili per la violenza subita, razionalizzando i comportamenti dell'aggressore o pensando di meritare ciò che accade.
Queste emozioni, se non riconosciute e affrontate, possono contribuire a rafforzare i meccanismi di difesa e rendere ancora più difficile uscire dalla spirale della violenza. Prendere consapevolezza di questa connessione è un primo passo fondamentale verso il cambiamento.
Segnali di allarme: quando i meccanismi di difesa possono diventare un ostacolo
Riconoscere i segnali che indicano l'attivazione di un meccanismo di difesa può aiutare a prendere coscienza della situazione e a chiedere aiuto.
Ecco alcuni segnali a cui prestare attenzione:
- Tendenza a giustificare sempre il partner, anche di fronte a comportamenti violenti o umilianti.
- Difficoltà a parlare della relazione con amici, familiari o professionisti, oppure cambiamento di argomento quando si affronta il tema.
- Svalutazione delle proprie emozioni, pensando che "esagero sempre" o "sono troppo sensibile".
- Isolamento sociale: evitare contatti con persone che potrebbero accorgersi della situazione.
- Senso di confusione o distacco dalla realtà durante o dopo episodi di violenza.
Se ti riconosci in uno o più di questi segnali, ricorda che non sei sola e che chiedere aiuto può essere un atto di coraggio, non di debolezza.
Quando l’ambiente condivide le difese
Come abbiamo accennato, alcuni dei meccanismi di regolazione difensiva possono essere condivisi dal contesto sociale in cui la donna vive. In questi casi è frequente il venirsi a creare di situazioni drammatiche in cui la donna cerca aiuto, ma trova davanti a sé un muro:
- “Gli uomini sono fatti così, è lei che non sa stare zitta”
- “Le dico sempre di dargli ragione in quei momenti, così si sarebbe calmato”
- “Ha detto che l’avrebbe tolta di mezzo, ma non l’ho preso sul serio”.
Tutto questo può rafforzare una bassa autostima, il senso di impotenza appresa e l’ambivalenza che molte vittime di violenza sperimentano, quando si trovano da una parte a pensare “devo andarmene” e dall’altra “se tengo duro la situazione cambierà”.
In queste situazioni si possono provare emozioni come:
- vergogna: “cosa penserà la gente sapendo ciò che ho sopportato?”
- senso di colpa: “A causa mia la nostra famiglia è distrutta”
- tristezza: “Non volevo si arrivasse a tanto”
- paura: “Non oso immaginare quello che potrebbe fare se andassi via”.
Il rischio è che quando emergono, la percezione di pericolo e la reazione di allarme vengono ignorate, portando la vittima di violenza ad abbassare la guardia e a non prendere azioni concrete per salvaguardare la propria incolumità.

Come chiedere aiuto: risorse e primi passi
Riconoscere di aver bisogno di aiuto può essere un passo fondamentale e spesso il più difficile. Se senti che i meccanismi di difesa ti stanno impedendo di vedere con chiarezza la tua situazione o di proteggerti, puoi rivolgerti a professionisti e servizi specializzati.
- Centri antiviolenza: Offrono ascolto, supporto psicologico, consulenza legale e, se necessario, accoglienza protetta. In Italia, il numero nazionale antiviolenza e stalking è il 1522, attivo 24 ore su 24 e gratuito.
- Professionisti della salute mentale: Psicologi e psicoterapeuti possono aiutarti a riconoscere i meccanismi di difesa e a lavorare sulle emozioni che ti bloccano.
- Rete di supporto: Parlare con persone di fiducia, come amici o familiari, può essere un primo passo per rompere l'isolamento.
Ricorda: chiedere aiuto non significa essere deboli, ma prendersi cura di sé e dei propri diritti. Ogni percorso di uscita dalla violenza è unico e merita rispetto e ascolto.
La psicoterapia per le donne vittime di violenza
La terapia con un professionista può essere un valido sostegno per le donne che subiscono violenza. Spesso si tratta di persone che sviluppano un disturbo da stress post traumatico e che necessitano di una presa in carico che sappia comprendere a pieno la complessità della situazione in cui si trovano.
Ogni atteggiamento di biasimo o “costrizione” verso la donna, sarà con tutta probabilità controproducente, andando ad alimentare emozioni bloccanti come vergogna e senso di colpa. Chi subisce violenza ha infatti bisogno di essere compresa, partendo da una posizione di ascolto non giudicante.
Gli obiettivi principali di un percorso psicologico con donne che subiscono o hanno subito violenza includono: aumentare la consapevolezza dei comportamenti violenti e dei meccanismi che possono intrappolare in una relazione violenta, incluse le difese psicologiche. In particolare, è stato osservato che le difese psicologiche altamente adattive sono positivamente correlate con una migliore qualità delle relazioni oggettuali nelle donne vittime di violenza (Porcerelli et al., 2011).
Un altro obiettivo fondamentale è individuare e rafforzare le risorse personali e quelle presenti nell’ambiente, indirizzandole verso realtà presenti sul territorio che si occupano di violenza di genere. Infine, il percorso mira a sostenere le donne nel processo di allontanamento dal loro aggressore, lavorando anche su dimensioni eventualmente presenti nella relazione come la dipendenza e la codipendenza.
Unobravo può aiutarti
Se senti che i meccanismi di difesa stanno ostacolando la tua capacità di vedere con chiarezza la situazione o di proteggerti, ricorda che non sei sola. Un percorso psicologico può aiutarti a riconoscere questi meccanismi, a lavorare sulle emozioni che ti bloccano e a trovare nuove risorse per prenderti cura di te stessa. Su Unobravo puoi trovare professionisti pronti ad ascoltarti e accompagnarti, con rispetto e senza giudizio, nel percorso verso il benessere. Se senti che è il momento di fare il primo passo, puoi iniziare il questionario e trovare il tuo psicologo Unobravo.









